di Giuseppe M.S. Ierace
«Nessuna lingua è, in sé, “traducibile” nel senso più compiuto del termine. Quello che normalmente si attiva – scrive Maria Grazia Ciani in Le porte del mito (Marsilio, Venezia 2020) – è una “trasposizione” che nel peggiore dei casi equivale a una trascrizione nel migliore a una riscrittura che può essere bellissima ma è comunque diversa».
Ne è un esempio quel superficialmente non esitante senso del «rischio che si deve correre vivendo», o «d’essere in continuo pericolo», comunicato con aleatoria ambiguità da Nietzsche nella citazione in esergo. Perciò forse, si parla di “tonalità” quando s’intende “accordare”, come nella strumentazione orchestrale, una lingua con un’altra, ricorrendo gioco forza a “chiave” idonea eppur differente; in quanto una lingua risuona allo stesso modo di una partitura musicale coordinata da chi la deve arrangiare su quanto è stato predisposto dal primo autore. A reagire sarà chiunque si accosti al confronto, accorgendosi inevitabilmente che qualcosa pur sempre sfugge dell’originale, per giunta lasciando la netta sensazione che il significato autentico possa soltanto trasparire a debita distanza, quasi controluce.
Nonostante testo e traduzione a fronte non si compenetrino mai abbastanza, bensì coesistano invariabilmente su sponde separate e sfuocate, un’appannata comprensibilità potrebbe comparire nella riflessione che dall’ascolto sospinge alle vaghe immagini delle espressioni più peculiari e colorite. Ogni parola, qui, a conferma della varietà d’una medesima realtà. Ed è questo fascino della diversità a contraddistinguere uno stile, come una sorta di basso continuo dal quale si possono elevare puntualmente melodie più alte. Il rebus consiste allora nel saper interpretare le polivalenze d’una polisemia che non intrappoli in quegli inattesi hapax legomenoi, spesso frutto di un’eccessiva ed estrema originalità.
La “Cura” di Igino e Heidegger
Prendiamo un altro esempio da Igino, l’autore delle Fabulae, giusto per evitare sin dall’inizio la polemica dell’omonimia tra l’Astronomo (Hyginus) d’età antonina e il “Bibliotecario” (Iginus), liberto di Ottaviano; in un solo rigo, a proposito della controversia sull’etimologia di “homo” (da “humus”), sembra riuscire a delineare quello che poi diverrà il nocciolo fondamentale di tutta la filosofia fenomenologico-esistenziale del xx secolo: «Quoniam Cura prima eum finxit, quamdiu vixerit, cura eum possideat» (poiché la Cura per prima gli diede forma, fin che esso vivrà, sarà Ella a possederlo). Nel ripetere “Cura”, che con l’iniziale maiuscola indica un personaggio, sia pur mitico, mentre con la minuscola è più un’idea (preoccupazione), uno stato d’animo (ansia), un motivo di turbamento (inquietudine), quale che sia l’Igino a scrivere, costruisce un polisemico gioco di parole (a mo’ di calembour, basato sull’omonimia), che la traduzione italiana non riesce a restituire per intero: «poiché per prima fu l’Angoscia a dargli vita, per tutta la vita sarà l’angoscia a opprimerlo».